venerdì 6 giugno 2014

LA FISIOLOGIA DELLA RISATA

Attraverso i principali sensi, l’udito e la vista, il cervello invia uno stimolo risorio, cioè una
situazione che spinge al riso; questo stimolo colpisce quella zona del cervello deputata a
riconoscere situazioni simili a questa e scatenare, in risposta, il riso.

In questo modo dal talamo e dai nuclei lenticolari e caudali del cervello parte l’impulso del
riso che arriva ai nervi facciali, i quali stimolano a loro volta i muscoli risorio e zigomatico.
Più è forte l’impulso, più questo arriva fino al diaframma e ai muscoli dell’addome.
Quando la risata cessa, inizia un piacevole e benefico stato di rilassamento.

Ma nello specifico, anatomicamente e fisiologicamente cosa provoca una risata?

Nel CERVELLO è una zona specifica a trasmettere il segnale: si tratta di particolari
strutture, il limbo e l’ippocampo in cui si trovano i circuiti legati alle emozioni. Oltre a
questi circuiti, si attivano i nuclei grigi della base encefalica e il corpo striato, ma è il
talamo che sovrintende alla risata come centro sensoriale, mentre il corpo striato induce
le reazioni motorie. Gli stimoli del riso e del pianto hanno origini simili e i segnali di inizio
di una fragorosa risata, così come di un pianto dirotto, partono da una stessa zona
cerebrale.

ORMONI: il riso fa aumentare la produzione di quegli ormoni, quali l’adrenalina e la
dopamina, che hanno il compito di liberare le nostre morfine naturali: endorfine,
encefaline e simili. Le endorfine provocano una diminuzione del dolore e della tensione,
permettendo il raggiungimento di uno stato di relax e tranquillità. Le encefaline sembrano
esaltare il sistema immunitario, aiutandolo a meglio combattere le malattie.

MUSCOLATURA: quando si ride parte della muscolatura, soprattutto a livello del torace
e degli arti superiori, alternativamente si contrae e si rilassa e innesca una ginnastica
addominale che migliora le funzioni del fegato e dell’intestino (ridere equivale a un buon
jogging fatto rimanendo fermi). Solo col riso muoviamo alcuni muscoli del corpo e
soprattutto del viso. Quando il cervello invia il messaggio “ridi”, ben quindici muscoli del
viso vengono attivati dal segnale(Il muscolo risorio del Santorini, situato lateralmente alle
labbra che contraendosi fa ritrarre la bocca e il grande zigomatico provocano fisicamente
la risata) La risata si riflette dall’espressione facciale ai muscoli del torace e dell’addome
(le spalle e il torace si sollevano aritmicamente) sino agli sfinteri. Non a caso dopo una
risata a crepapelle si sentono i muscoli della pancia doloranti, come pure le costole.

RESPIRAZIONE: Il primo beneficio provocato da una risata lo riceve la respirazione, che
grazie ad essa diventa più profonda. L’aria dei polmoni viene rinnovata attraverso fasi di
espirazione e inspirazione tre volte più efficaci che in stato di riposo. Questo favorisce
l’eliminazione dell’acido lattico, una sostanza tossica per il nostro organismo, con una
sensazione di minor stanchezza. Le alterazioni del ritmo respiratorio intervengono
sull’ossigenazione del sangue. La respirazione, inoltre, esercita e rilassa la muscolatura
toracica e innesca una ginnastica addominale che migliora le funzioni del fegato e
dell’intestino.

Un sorriso per stare bene

“Quando un bambino entra in ospedale , è come se fosse portato nel bosco, lontano da casa.
Ci sono bambini che si riempiono le tasche di sassolini bianchi, e li buttano per terra, in modo da saper ritrovare la strada di casa anche di notte, alla luce della luna.
Ma ci son bambini che non riescono a far provvista di sassolini, e lasciano delle briciole di pane secco come traccia per tornare indietro.
E’ una traccia molto fragile e bastano le formiche a cancellarla: i bambini si perdono nel bosco e non sanno più tornare a casa”.
(A. Canevaro)

Questo è ciò che ognuno dovrebbe tenere presente, i bambini hanno sempre bisogno di un filo che li colleghi costantemente con la propria casa, la propria famiglia, tutto ciò che hanno di sicuro.

E cosa, meglio di un sorriso e una risata, li può fare sentire a casa?

Il Clown

Oggi la gente ha bisogno di ridere, di positività, di speranza. E chi meglio di un clown può portare la missione della gioia?
Perché un clown? È una moda, una tendenza? No!  L’idea iniziale è stata quella di unire un bel po’ di gente colorata, allegra e soprattutto pronta all' amicizia con il suo prossimo positivamente cioè senza pregiudizi e giudizi. Tutti hanno bisogno di ridere per lasciare da parte i pensieri molesti e le preoccupazioni almeno per un po’. E se chi sta bene ha bisogno di ridere e rilassarsi, a maggior ragione ne ha bisogno chi sta male. Il malato ha bisogno di non pensare alla sua malattia, di distrarsi. È nata così l’idea del clown da portare in ospedale e non solo; il clown va ovunque ci sia sofferenza. Il clown di corsia è un personaggio colorato, preparato all’improvvisazione come un attore, ma non è solo un attore o un circense: è l’amico di tutti bambini e adulti.
Il clown ha il compito di spostare l’attenzione del degente dalla malattia e di creare un cambiamento positivo di atmosfera in un luogo di sofferenza.
Il clown si presenta in reparto con un “personaggio” che ha una sua camminata, una sua voce, un suo “tormentone” e che permette al volontario di esprimersi con libertà, senza imbarazzo e mantenendosi in un certo qual senso distaccato dal dolore che vede intorno a sé.
Il clown è un grande strumento di felicità, di gioia:  il naso rosso apre le porte, è una maschera piccola e magica, toglie le barriere, crea una confidenza immediata, fa sorridere, incuriosisce la gente, semplifica le comunicazioni.
Bisogna ammettere che, il film in cui l'attore Robin Williams si cala nella parte di Patch Adams, ha favorito notevolmente la diffusione dell' importanza della clown-terapia.
Il clown è la chiave per aprire la porta delle relazioni e per comunicare in maniera aperta e immediata con il malato in ospedale, con i suoi parenti, con il personale medico e ospedaliero, interagisce con la gente in strada...
A proposito delle relazioni che legano il paziente con tutte le persone che ruotano attorno a lui, è significativo l’apporto di Anna Freud che nel suo lavoro Il trattamento psicoanalitico dei bambini afferma:

“Lavorando con un adulto dobbiamo limitarci ad aiutarlo ad adattarsi al suo ambiente… non è certo nelle nostre intenzioni, e del resto non sarebbe neanche in nostro potere, trasformare il suo ambiente in base alle sue esigenze. Con un bambino invece possiamo farlo senza grandi difficoltà. Le necessità dei bambini sono più semplici e più facili da accertare e da soddisfare… così facendo, tentando cioè di adattare l’ambiente al bambino, gli facilitiamo il processo di adattamento”.

venerdì 14 marzo 2014

Il sorriso e il riso nell’infanzia

L’evoluzione delle espressioni mimiche del sorriso e del riso è molto significativa, anche per lo sviluppo del senso dell’umorismo ( Ceccarelli, 1988). Fin dai primi giorni di vita e già nelle prime settimane, è stata osservata la presenza del comportamento del sorriso. Naturalmente non si tratta di una vera e propria risposta all’umorismo, ma è il risultato di un’attività spontanea del SNC durante il sonno. Versi il 2° anno di vita compare un fatto nuovo: “il far finta che”; questa è una procedura molto importante per coniugare realtà e fantasia. ( Il clown utilizza quasi sempre questo simpatico gioco, che gli permette di inventarsi storie e situazioni fantasiose). Questo comportamento è chiamato gioco simbolico. Il fatto che i bambini ridano sovente durante il gioco simbolico, fa pensare che esista un divertimento legato al manipolare le immagini in questo modo, poiché l’oggetto fantastico (es. dito) è associato all’oggetto reale (es. spazzolino) solo nella mente del fanciullo. Il processo in questione viene chiamato assimilazione fantastica.
Questo argomento è stato ampliamente trattato dallo psicologo Piaget, il quale afferma:

“Il gioco simbolico segna senza dubbio l’apogeo del gioco infantile… costretto ad adattarsi senza sosta ad un mondo sociale di grandi, i cui interessi e regole gli restano estranei, e ad un mondo fisico che afferra ancora male, il bambino non riesce come noi a soddisfare i bisogni affettivi ed anche intellettuali del suo io in questi adattamenti, che, per gli adulti, sono più o meno completi, ma rimangono per lui tanto più incompiuti quanto più è in tenera età. È dunque indispensabile al suo equilibrio affettivo ed intellettuale ch’egli possa disporre di un settore d’attività la cui motivazione sia l’assimilazione del reale all’io…: tale è il gioco…”

sabato 8 marzo 2014

L’umorismo nei bambini

Nel suo saggio sul motto di spirito, Freud (1905) afferma: “I bambini non hanno il senso della comicità”. una tale affermazione può apparire molto sorprendente se si pensa che l’autore sia proprio lo studioso che ebbe l’attenzione e l’acutezza di riconoscere l’esistenza della sessualità infantile. Si rimane quindi perplessi a credere che Freud abbia negato l’esistenza della comicità. In realtà, egli non intendeva affermare che il bambino non fosse capace di ridere e sorridere in modo umoristico ma, precisamente, che questo avvenisse con caratteristiche marcatamente diverse da quanto accade nell’adulto. Del resto, come altri aspetti della personalità, il senso dell’umorismo ha una propria maturazione ed evoluzione.
Nell’età evolutiva si attraversano delle ampie trasformazioni nelle abilità cognitive, nelle motivazioni e nelle interazioni sociali, che determinano ed influenzano anche l’apprezzamento e la capacità di fare dell’umorismo.
Parlare di limitazione del senso del comico nel bambino, volendosi riferire alla qualità delle occasioni di comicità, può comportare un equivoco legato al paragonare l’orizzonte delle esperienze del bambino a quelle dell’adulto. È vero, infatti, che l’adulto ha più orizzonti a sua disposizione, ma è anche vero che essi sono intrisi di così tanti elementi morali e sociali da impedire il distacco, la trasfigurazione fantastica, che è alla base dell’apprezzamento del comico.
Anche una semplice osservazione empirica in un gruppo di bambini ci mostra come le occasioni di riso siano non solo numerose ma anche varie. Probabilmente, gli stimoli che producono il riso e il sorriso non paiono all’occhio dell’adulto stimoli umoristici ma, d’altra parte, sui gusti umoristici non si discute. Anche tra gli adulti c’è chi preferisce un genere, piuttosto che un altro.
Se l’incongruità è sempre presente nelle produzioni umoristiche degli adulti, non tutto ciò che è incongruo risulta umoristico. Questo è vero soprattutto nei bambini molto piccoli, per i quali la percezione d’incongruità può con più probabilità causare anche solo interesse e curiosità, oppure ansia e paura: una maschera di carnevale, strana e grottesca, che può divertire un adulto, è facile che renda perplesso, se non spaventato, un bambino piccolo.
L’umorismo è stato argomento trattato e discusso da filoni e letterati d’ogni tempo. Il celebre saggio Il riso in cui il filosofo Henry Bergson aveva cercato di interpretare unitariamente le varie forme del comico, distinguendo nel riso “ un lieve castigo sociale”contro gli automatismi che bloccano la fluidità del vivente, era stato pubblicato nel 1900 sulla Revue de Paris. Il discorso sull’umorismo era di moda in quegli anni. Benedetto Croce lo aveva già sfiorato nel 1903. meritano, inoltre, di essere citati, con l’esplicita sottolineatura a favore del siciliano Pirandello, anche altri autori che hanno trattato il tema  dell’umorismo: Shakespeare, Goethe, Jean Paul Richter, Thackeray, Dickens, Heine, Manzoni, Twain, Bergson.
Una suggestiva immagine che ci offre Pirandello al termine del suo lavoro e che fornisce all’umorista un’affascinante intuizione, è la seguente:

L’artista ordinario bada al corpo solamente, l’umorista bada al corpo e all’ombra, e talvolta più all’ombra che al corpo; nota tutti gli scherzi di quest’ombra, com’essa ora si allunghi e ora s’intozzi, quasi a far le smorfie al corpo, che intanto non la calcola e non se ne cura …




Ridere e sorridere

Il dizionario della lingua italiana, alla voce “ridere” sentenzia: ”Mostrare allegrezza, specialmente spontanea e improvvisa, con particolare contrazione e increspamento dei muscoli della faccia ed emissione di suoni caratteristici”.
Questa spiegazione, in realtà, non aumenta di molto le nostre conoscenze. Possiamo allora considerare quelli che sono i due poli all’interno dei quali il ridere si manifesta: la risata e il sorriso.
 Ma che cos’è la risata? È l’elemento fondamentale del ridere. Essa è formata da una serie regolare di brevi monosillabi di timbro vocalico che, solitamente, sono rappresentati graficamente con: Ah – Ah, Eh – Eh, Ih – Ih, Oh – Oh, Uh – Uh.
Sa tratta di parole monosillabiche che fanno parte del vocabolario universale dell’uomo e che sono prodotte e riconosciute da tutti, indipendentemente dalla cultura (quindi dalla lingua) di chi le utilizza.
La risata costituisce, pertanto, una forma istintiva di comportamento geneticamente programmato. Ridendo vengono emessi dei suoni che manifestano emozioni provenienti dalla profondità biologica dell’individuo. La risata può essere considerata una funzione comunicativa bivalente. Infatti, può costituire sia un collante della relazione con l’altro sia un’arma in grado di valorizzare l’altro, umiliandolo.
Essa è una lingua misteriosa e universale, che costituisce una risposta inconscia ai diversi condizionamenti sociali e linguistici.
Dal punto di vista evolutivo filogenetico, la risata sembra rappresentare “un’antica vestigia vocale
Che ancora si mantiene e convive con il livello attuale del linguaggio verbale” (R. Provine).
È un gesto bio-psicologico, nato prima della parola, che l’uomo condivide, ma solo in parte, con i primati a lui più prossimi.
La risata viene anche considerata come l’esito finale di una serie di eventi, azioni, comportamenti espressi con discorsi, battute, disegni, rappresentazioni e altro che, volontariamente o meno, possono essere percepiti come ridicoli.
Abbiamo detto che la risata, nella sua espressione esterna, è basata sulla emissione di aria modulata in modi differenti a seconda del tipo di risata espressa. Tale emissione di aria produce un suono/rumore che è caratteristico di ogni personale modo di ridere. Ridere, tra l’altro, è più simile a un verso o un richiamo animale piuttosto che a un atto linguistico.
L’influenza sul comportamento umano del particolare tipo di suono emesso con la risata, sembrerebbe fare optare per la presenza (non accertata, ma solo ipotizzata) di un “rilevatore neurologico acustico” deputato a specifiche modalità di vocalizzazione. Il suono della risata consiste in una serie di note ilari di timbro vocalico e della durata di circa un sedicesimo di secondo regolarmente intervallata tra loro. Il loro tono va solitamente decrescendo con una riduzione graduale della sua intensità sonora quale conseguenza, a livello fisiologico, della riduzione dell’aria polmonare disponibile da parte di chi ride. La risata è costituita da note e suoni vocalici preceduti e seguiti da un lieve “sospiro”.
Ciò che permette di identificare l’emissione d’aria come risata sono le note vocali emesse e lo spazio che le separa.
La risata è in genere costituita da tratti stereotipati anche se non in maniera rigida: la maggior parte degli individui, infatti, ride in modo simile, ma non identico.

Inoltre, non è possibile ridere in maniera scollegata dal contesto e dalla personalità di chi ride. Un aspetto particolare e caratteristico della risata è proprio costituito dal suo essere innata e insita in ciascun individuo con l’intrinseca capacità di generarne altre (contagiosità della risata).





giovedì 20 febbraio 2014

Dei piccoli eroi

In Pennsylvania, negli Stati Uniti, c’è un’associazione che si occupa di recuperare i gatti abbandonati e maltrattati e di riavvicinarli all’uomo, per farli poi adottare a chi se ne vorrà prendere cura per davvero. I piccoli animaletti vengono raccolti in una specie di canile per gatti disperati che non hanno più fiducia negli esseri umani. Come potremmo dargli torto?
Ma come fa l’associazione, vista tale sfiducia da parte dei gattini, a recuperare gli animali? Beh, la risposta è semplice: gli affiancano quello che di meglio l’umanità può offrire…..I BAMBINI!
i bambini che partecipano a questo programma delicato di acquisto di fiducia devono semplicemente sedersi tranquilli in apposite stanze con i gattini a leggere ad alta voce libri per l’infanzia. Pian piano i gatti si abituano al sono ritmico della voce e tornano ad aver fiducia, si avvicinano e cominciano a fare amicizia e ricevere coccole.
Vi chiederete; tutto ciò funziona?
A detta dell’inventore di questo metodo, Kristi Rodriguez, la risposta è Sì: i gatti tornano ad essere socievoli con l’uomo e, cosa altrettanto positiva, anche per i ragazzini questo metodo appare vantaggioso in quanto si esercitano migliorando le loro capacità di lettura, aumentando così anche la loro autostima.
 Beh, che dire...

Bravi piccoli, continuate così!!!!!!!

martedì 18 febbraio 2014

Animali con il "naso rosso"

La Pet Therapy, ovvero l’uso terapeutico degli animali da compagnia, ha messo in luce un nuovo rapporto uomo-animale. Essa, viene anche definita "terapia dolce", proprio in virtù degli effetti benefici che possono essere riscontrati sia sotto il profilo psico-emozionale che fisico nei pazienti ai quali viene praticata.

Il rapporto che si viene ad instaurare tra il soggetto e l’animale intende sostenere lo sviluppo del versante  affettivo-emozionale, di quello ludico e di quello psicomotorio.  Infatti queste aree risultano compromesse a differenti gradi nelle persone autistiche.
La relazione che si crea  tra il soggetto autistico e l’operatore di Pet Therapy è  spontanea e flessibile ma allo stesso tempo anche programmata, tesa al raggiungimento degli obiettivi della terapia rispettando sempre le peculiarità del paziente. L’animale si inserisce all’interno di questa relazione come "mediatore emozionale" e come "catalizzatore" dei processi socio-relazionali. La Pet Therapy non è un tipo di terapia invasiva ed esclusiva, ma si inserisce all’interno di un più ampio progetto psicoeducativo già in atto, secondo un’ottica di integrazione individualizzata delle diverse strategie.

La dolcezza a quattro zampe



So che questo video può sembrare lungo. ma spero che dedicherete quattro minuti del vostro tempo per vedere ciò che mostra questo filmato.



Il cane ripreso è una femmina di nome Himalaya. Lei si rifiuta di lasciare il bambino che non vuole giocare con lei: il piccolo Hernàn di Buenos Aires affetto dalla sindrome di Down.
Himalaya nel persistere si rivela delicata e dolce ed Hernàn finisce per darle quel che sembra un abbraccio intorno al minuto 3:12





Fondazione Città della Speranza

Nella periferia industriale di Padova, la differenza tra il rassegnarsi e il reagire di fronte alle malattie dei bambini, oncologiche ma non solo, ha preso forma e sostanza ben precise: una torre con due “ali” protese verso il cielo, quasi a disegnare una colonna vertebrale. L’edificio di dieci piani progettato da Paolo Portoghesi è la sede dell’Istituto di ricerca pediatrica della Fondazione Città della Speranza. Un nome che nelle intenzioni dei fondatori rappresenta la certezza del presente, una sfida quotidiana perché attraverso la ricerca migliorino ulteriormente le possibilità di guarigione.

Vale davvero la pena raccontare la sua storia. Il punto di partenza, come spesso accade, è una vicenda personale. Vent’anni fa Franco Masello, un imprenditore vicentino, perde un nipotino a causa di una leucemia. Durante le visite al piccolo Massimo, ricoverato nel reparto di Oncoematologia pediatrica di Padova, Masello si rende conto della difficile situazione della struttura. Il bambino non ce la fa. Ma lo zio decide di non voltare le spalle di fronte a quanto ha visto e il 16 dicembre 1994 assieme a Zilio Virginio, Carlo Mazzocco e al professor Zanesco dà vita alla Fondazione “Città della Speranza”: in ricordo di Massimo e per dotare l’ospedale di Padova di strutture adeguate. Per la loro iniziativa i fondatori prendono ispirazione da “City of Hope” , una fondazione statunitense della quale apprezzano le modalità operative. In particolare, l’attenzione alla trasparenza, alla gestione del denaro e alla concretezza. Nel giro di quattro anni, grazie ad una raccolta di fondi capillare, la Fondazione realizza il nuovo reparto di Oncoematologia pediatrica, il laboratorio di ricerca e il day hospital. Dall’anno successivo(siamo nel 1999), nasce l’impegno a destinare almeno un milione di euro all’anno, per dieci anni, a favore della ricerca scientifica. A decidere quali siano i progetti più meritevoli, ci pensa un Comitato scientifico internazionale con i migliori specialisti dell’Oncoematologia. E sono più di 100, i progetti già finanziati. Il 2004 segna la svolta: Anna Maria de Claricini, pediatra milanese originaria di Padova, lascia alla Fondazione 4 milioni e mezzo di euro in memoria del marito, il professor Corrado Scarpitti, per la costruzione di un centro di ricerca pediatrico. L’8 giugno del 2012, l’Istituto di ricerca pediatrica viene inaugurato. «La Fondazione ha raccolto e investito ben oltre 50 milioni di euro finora — dice con orgoglio Masello — senza nessunissimo interesse, senza un centesimo di scandalo su soldi “girati” in altro modo. Siamo sicuramente rispettati, perchè abbiamo fatto e continuiamo a fare». La Fondazione Città della Speranza onlus, che compie 20 anni, è proprietaria dei terreni e della torre e, per una questione fiscale, li ha dati in usufrutto alla Fondazione Istituto di ricerca costituita dalla stessa Fondazione Città della Speranza, da Azienda ospedaliera e Università di Padova, Fondazione Cariparo, Comune di Padova e Camera di Commercio.